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Nella Camera Oscura con Steve Sabella | Leda Mansour | Maretti Editore

2014

 

La regista fa scivolare il suo disco, Goldmund attacca, La malattia dell’eleganza manda il suo ritmo, la videocamera di Nadia Kabalan si muove sotto effetto del piano al rallentatore, in cerca di questo artista elegante… Piano piano e Steve Sabella, nel suo atelier-laboratorio, ci spiega: «Ci vuole un po’ di tempo!». Un po’ di tempo per una creazione che si rivela gocciolando con estrema lentezza, come il sudore di un archeologo. L’occhio si posa sulle sue mani, sta cercando di ricreare la città: «una nuova semiotica di Gerusalemme». È appunto questo rapporto con lo spazio che Sabella affida, teso, al suo lavoro, che parte dalle mura della città e della sua vecchia casa che non è più sua! «Il luogo in sè stesso non esiste, è tutto uno stato mentale!». Con questo spirito si lancia in un esperimento arcaico: se è vero che un muro è fatto di materie prime quali acqua e calcestruzzo, Sabella si attacca a qualcos’altro, qualcosa di molto antico: alla metamorfosi di un artista in un archeologo, quasi uno storico, senza però accento nostalgico. Lui è là, scava, scava, scansiona, raccoglie, strappa frammenti di pittura dalle pareti, e li mescola; la mescolanza con vecchie foto di famiglia e oggetti intimi; tutto per tracciare la strada di oggetti abbandonati, prima di lasciare quella casa senza chiudere la porta! Nella sua camera oscura Steve Sabella realizza che, come parte di una metamorfosi le cui mura che non avranno mai tratti lineari: «Chi ha detto che una trasformazione deve seguire linee dritte?».

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