24 Dicembre 2014
“Everything is a mental state, the place itself doesen’t exist”. (Steve Sabella, catalogo della mostra) Archeologia del futuro è una mostra ospitata dal Centro Internazionale di Fotografia Scavi Scaligeri di Verona. Si tratta di un’esposizione singolare che insieme alle immagini espone anche la vita dell’artista: il palestinese Steve Sabella.
Nato a Gerusalemme nel 1975, e poi trasferitosi a Londra e in seguito a Berlino, egli racconta alla curatrice Karin Adrian von Roques la difficile permanenza nella città natale e la sua strategia di sopravvivenza: “Gerusalemme divenne un’immagine e io mi sentivo intrappolato in essa. Poi però lentamente, dopo aver rappresentato Gerusalemme in una forma, ho capito che il mio sforzo era diretto proprio a capire le immagini, la loro funzione e origine, per trovare una via e liberare me stesso (…) dall’esilio, o dall’immagine dell’esilio, ricorrendo alla mia immaginazione. Ciononostante, ho realizzato che ero stato imprigionato in altre immagini”.
Per questo la vita stessa, afferma l’artista, diventa “un processo infinito di liberazione”. Un processo di liberazione (anche visiva) che si dipana dal 2000 al 2014, scandito da una riflessione artistica e umana leggibile nei titoli delle diverse sezioni della mostra poi riprodotte nel catalogo: In Exile, Independence, Till the End, In Transition, Metamorphosis, 38 Days of Re-Collection e infine Exit, che cerca di allontanarsi dai facili stereotipi con cui viene di solito rappresentata la sua città.
Non c’è alcuna terra tragica del conflitto e nemmeno individui che vanno frugando alla “ricerca dei luoghi dei morti”, come scrive Elias Canetti, bensì immagini dominate da un lucido rigore geometrico, composte talvolta da un grandissimo numero di frammenti (piccole parti di edifici, finestre, alberi, mani) accostati fra loro con differenti modalità: collages fotografici, installazioni, sequenze di immagini proiettate in dissolvenza su uno schermo.
Cosa vogliono rappresentare? Una via d’uscita, una rinascita, la proposta di uno sguardo in grado di valicare confini fisici e mentali. Steve Sabella rifiuta la fissità del tempo e dello spazio: “il montaggio di un’immagine”, scrive l’artista, “ci permette di cambiare una forma in un’altra, creando una nuova storia o realtà”. “Il mio rapporto con l’immagine”, prosegue, “è simile a essere in un’odissea nello spazio, alla ricerca della comprensione di come si forma l’immagine. E poiché l’immagine è parte dell’immaginazione, decrittarne il codice ci permetterà di vedere oltre la nostra realtà”. Per questo l’artista propone uno sguardo che sconfina in altro da sé, perennemente dislocato e insieme “glossolalico”, simile per certi aspetti alle invenzioni linguistiche di Antonin Artaud, che praticava una lucida disarticolazione del linguaggio, come accade anche nelle immagini del fotografo.
In esse si può leggere una precisa tensione dialettica. Non è possibile individuare qual è il frammento-archetipo che compone i suoi collage, non c’è alcun “frutto puro” direbbe James Clifford. Tuttavia questi morfemi di un alfabeto visivo perfettamente riconoscibile (una finestra, un albero, una terrazza) sono allo stesso tempo indici di uno spazio e di un codice del tutto nuovi: la composizione-sintassi dell’immagine risulta frammentata dal movimento impresso dall’autore, a cui si accompagna uno sguardo non solo “altro da sé”, ma anche “eccessivo”, inteso come infinito numero di punti di vista e mondi alternativi, che corrispondono all’accostamento dei frammenti posti in immagine.
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